Chiamati ad amare come Gesù
In questa VI domenica di Pasqua continuiamo la lettura del capitolo 15 del Vangelo di Giovanni (vv 9-17). “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” (v 9). L’evangelista parla di “amore” usando il termine “agàpe” cioè “carità” che va intesa come realtà teologale, “amore” che ha origine in Dio e che caratterizza la relazione tra il Padre e il Figlio. Un amore intimo e profondo, totale e incondizionato che il Padre ha verso il Figlio e che il Figlio riversa sui discepoli: infatti si dice “come il Padre” e “anche io” cioè in modo analogo. Da qui l’invito a “rimanere” nell’amore di Gesù, “nel mio amore”, che è lo stesso amore del Padre per Lui e di Lui per i suoi. È l’invito a perseverare in questa relazione, a stare dentro questo amore, a non fuggire ma ad accoglierlo. E qual è il modo concreto di rimanere in quell’amore che il Figlio ci ha manifestato essere l’amore del Padre? “Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore” (v 10). Il Figlio è rimasto nell’amore del Padre facendosi in tutto obbediente ai suoi comandamenti. Allora, se noi vogliamo rimanere nell’amore di Gesù dobbiamo essere a nostra volta obbedienti ai suoi comandamenti. “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (v 11). La gioia di Gesù è quella di sapersi amato dal Padre e di essere obbediente ai suoi comandamenti e questa gioia la dona ai discepoli perché anch’essi gioiscano pienamente. E la dona anche a noi. Una gioia non passeggera o semplicemente emotiva ma la gioia di chi sa di essere amato dal Signore, si impegna ad essere fedele ai comandamenti, sa amare e fa del “suo amore” il senso del proprio essere ed esistere. “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati” (v 12). Qui Gesù non parla più di “comandamenti” ma di “mio comandamento”. Un comandamento personale, dato da Lui stesso e che riguarda l’amore fraterno da mettere in pratica ad imitazione del suo amore per noi. E questo amore diventa più grande quando si spinge fino alla fine: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici.” (v 13). C’è un modo particolare di dare la vita per amore degli altri, pensiamo ai martiri di ieri e di oggi. C’è un modo anche per ognuno di noi di amare donando la vita. Quando e come? Ogni giorno, là dove siamo chiamati a vivere ed operare, nelle piccole o grandi cose, offrendo la nostra quotidianità fatta di fatiche e speranze, sfide e preoccupazioni, gioie e dolori. “Voi siete miei amici, se fate ciò che vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (vv 14-15). L’amore gli uni per gli altri comandato da Gesù fa sì che Egli consideri i discepoli e anche noi come “suoi amici” e non più “servi”. Tra il servo e il padrone il rapporto è di subordinazione, di dipendenza. Il servo non conosce tutto del padrone; qui invece siamo chiamati “amici” da Gesù perché ci ha resi partecipi di quanto il Padre gli ha detto. E siamo suoi amici per una decisione di Gesù “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda” (v 16). Il discepolo è tale non per propria scelta ma unicamente per una scelta divina, quella di Gesù, che Egli stesso consolida per una missione feconda e duratura così che quanto viene chiesto al Padre, nel nome di Gesù, venga esaudito. “Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri” (v 17). L’amore vicendevole non è un semplice voler bene agli altri. Gesù ci chiede un amore più grande. Amare tutti anche i propri avversari come Lui vuole e ci ha dimostrato. Un amore gratuito e senza misura che sa porsi al servizio dell’altro fino al dono totale di sé.